Che cosa rende speciale una città?
I suoi abitanti? La capacità di rendere straordinarie anonime fotografie scattate con mezzi tecnici a dir poco inesistenti? O forse quella voce a noi estranea, che ricopre e ammanta di un tessuto magico l’opaca vivacità quotidiana di una metropoli all’apparenza come tante?
La magica altisonanza di nomi dietro i quali si cela un intero immaginario frutto della beata innocenza dell’infanzia, e non solo: Moschea Blu, Gran Bazaar, sultani e Harem, palazzi, Hammam, Bazar delle Spezie, tappeti, lanterne, spezie e ciabattine con la punta all’insù, leggermente curvata verso l’interno. Quanto le ho desiderate da bambina.
Devi fregartene dei turisti. Anche tu sei una turista, diciamocelo chiaro e tondo. E quindi? E’ un insulto? Cosa può elevarti al prestigioso rango di cittadino di un mondo che non conosci, e al quale vorresti appartenere per soli tre miseri giorni della tua esistenza?
Circondarsi di meraviglia e lasciarsi guidare dal cuore pulsante di una città diversa da tutte le mille altre che hai avuto la fortuna di visitare. Coccolare le centinaia di gatti affettuosi che popolano le strade, lasciare che il cuore si fermi un attimo quando il tuo viso prende fiato tra i vapori languidi trasudati dalle sale di un hammam del Seicento, farsi stordire dalla voce del muezzin che riecheggia in tutta la città, anche alle dieci di sera, e osservare rapiti uomini e donne che pregano concentrati sotto i portici di una delle più belle moschee che possano esserci sul pianeta.
Non ci sono giudizi, né tantomeno traballanti certezze: solo la cocente consapevolezza di uno stordimento generato da una voluta passività, indispensabile per captare, o almeno provarci, le mille anime di una città troppo complessa per essere accettata pienamente nella sua completezza al primo incontro. Non sforzatevi di capire Istanbul, non cercate di definirla o di subissarla di aggettivi, siate umili e passivi, senza vergogna alcuna, e lasciate che sia lei a raccontarsi dinanzi a voi.
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